«[…] ora, quando l’ironia sopraggiunge, mostra la via, non quella però per cui chi si immagina di avere il risultato giunge a possederlo, bensì l’altra su cui il risultato lo abbandona»[1] | Soren Kierkegaard, Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, 1841
Sembrano ormai lontane le parole con cui il filosofo danese tentava una definizione di ironia, ma mai quanto oggi quelle parole ci sembrano più vicine, più vere. Certamente il filosofo non intendeva legare l’ironia, come tropo retorico del linguaggio verbale – nella sua duplice funzione – alle pratiche artistiche del suo tempo, ma, in maniera del tutto inconsapevole, il suo saggio preannunciò molta della ricerca artistica del Novecento.
Per definizione l’ironia, nell’uso più comune, corrisponde alla capacità dell’enunciatario di dissimulare il proprio pensiero tramite parole o frasi che significano il contrario di ciò che affermano, e che utilizzano un tono sarcastico, umoristico ed anche polemico che illumina le intenzioni reali. Così facendo, l’enunciatario ammonisce l’interlocutore, costringendolo a non limitarsi ad una lettura superficiale dell’enunciato e ad attuare un ulteriore sforzo interpretativo che ne sveli il vero significato.
Come possiamo però decifrare l’ironia sul piano della semiotica visiva? Quali meccanismi fanno si che l’osservatore di un’opera d’arte ne comprenda il suo significato ironico? Perché vero è anche che «mostrare non sarà mai dire»[2].. Se però è vero anche quanto scrive il filosofo francese Règis Debray che «un’immagine è un segno che presenta questa particolarità: essa può e deve essere interpretata, ma non può essere letta» e ancora che «le immagini ci fanno segno, ma non c’è e non ci può essere un “significante immaginario”», [3]come facciamo a leggerne, nel loro presunto mutismo, l’ironia?
La presenza di simboli contraddittori (la contraddittorietà è del resto cifra peculiare del linguaggio ironico) all’interno di tutta la produzione artistica moderna ha reso possibile, da parte di storici dell’arte, critici e studiosi, un’interpretazione che vede nell’ironia una dissimulazione del vero significato morale indicato dall’autore.
È comune sentire, da parte di storici dell’arte, studiosi e critici, che il periodo delle Avanguardie e delle Neoavanguardie fosse il palcoscenico dell’ironia. Si pensi a René Magritte, padre della dissimulazione per eccellenza, il quale, attraverso l’uso del trompe l’oeil ingannava lo spettatore, facendogli credere che tutto ciò che egli osservava rappresentasse il vero, spingendo proprio tale principio di contraddizione ai limiti dell’eccesso. La pipa, con Magritte, non era più una pipa.
Alla pipa magrittiana è d’altronde dedicato il saggio omonimo di Michel Foucault (ceci n’est pas une pipe), pubblicato nel 1988. Nel saggio il filosofo afferma che «paragonato alla tradizionale funzione della didascalia, il testo di Magritte è doppiamente paradossale. Si propone di nominare ciò che, evidentemente, non ha bisogno di esserlo (la forma è troppo nota, il nome troppo familiare). Ed ecco che nel momento in cui dovrebbe dare un nome, lo dà negando che sia tale». L’opera di Magritte è parte del sostrato culturale del concettualismo. Si pensi a Joseph Kosuth e alla sua opera Art as Idea as idea (1968), o ancora a Sol LeWitt, John Baldessari e Piero Manzoni, artisti nei quali l’ironia assume le forme di segno, e non di simbolo.
Il concettualismo, portato ad oggi alle estreme conseguenze, ha massificato la produzione di opere-oggetto, alle quali vengono assegnati presunti titoli provocatori al puro scopo di farli sembrare ironici, anche se molte volte di ironia non ce n’è traccia. Queste opere-oggetti diventano sempre più incomprensibili e richiedono un intervento di mediazione sempre più consistente. La mancata sostanza di un’opera viene nascosta dal suo titolo ironico. E, ancora citando Debray, “più povere sono le immagini, più ricca deve diventare la comunicazione d’accompagnamento, perché meno l’immagine significa, più essa vuole essere linguaggio”[4].
Proprio al testo scritto, e non all’opera, quindi, i critici hanno affidato lo svelamento di quel “significante immaginario” di cui parla Debray, inevitabilmente impoverito e desaturato nella sua forza dal cambio di linguaggio, in un’operazione di “traduzione” che tuttavia si è spesso resa necessaria a fini commerciali, dal momento in cui lo spettatore non sembra essere in grado di captare la profondità delle riflessioni incarnate nell’opera, fermandosi piuttosto solo sulla sua ironia formale.
Si pensi dunque a Bruce Nauman che nei suoi Corridors (1970) sognava spesso di attraversare un corridoio stretto e buio, camminando a imitazione della posa manierista del contrapposto – chiaro riferimento ai Prigioni di Michelangelo (1513). Tale posa statuaria ripresa anche in Walking in an Exaggerated Manner around the Perimeter of a Square del 1968 – suscita nello spettatore una reazione, solo se permane nel suo essere immobile. Se però si osserva tale posa all’interno della proiezione video, la tensione del contrapposto si scioglie in un ancheggiamento spiritoso. Lo spettatore medio, poi, coglie solo l’apparenza dell’opera, mentre l’intellettuale afferra l’ironia, ma non il suo Assoluto. Ma sebbene quest’ultimo sia in grado di riconoscerla non potrà coglierne il significante immaginario.
Riflessioni come quelle di Debray portano alla luce anche un’altra questione, parzialmente collaterale rispetto al discorso sull’arte, che è quella della necessità del linguaggio, che fornisce l’humus culturale preliminare alla diffusione sempre più capillare dei memes, dispositivi di comunicazione sintetici ed estremamente efficaci in virtù del connubio felice tra testo e immagine.
Una simile critica alla passività dell’atto di osservazione sfocia in una lucida disamina di quello che è l’habitat naturale delle opere, il museo, analizzato in quanto contenitore di una rete di relazioni spesso passive e acritiche, come avviene nel video Hen House di Mattia Pajé, la cui provocazione (portare la mostra all’interno di un pollaio) si spinge fino al punto in cui un monolite nero – chiaro omaggio a Stanley Kubrick – rivendica il suo essere enigma, la sua resistenza ad ogni tentativo di trascrizione. È forse questo il significante immaginario?
[1] Soren Kierkegaard, Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate. [2] Regis Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente. [3] Ivi, pp.54-55. [4] Ivi, p.59.
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