L’opera di Rebor innesca una profonda riflessione sulla percezione della realtà e sui comportamenti degli esseri umani. Lo scopo di Una e tre persone è quello di generare infinite domande, mettendo in luce alcuni tra i più controversi lati della psiche: chi è Chiara Ascioni e perché migliaia di persone hanno iniziato a seguirla sui social? Quanto, realmente, abbiamo paura dell’intelligenza artificiale e in che misura un utente è in grado di riconoscerne la presenza e l’utilizzo?
Chiara di fatto non esiste nella realtà ma “vive” grazie alle interazioni degli utenti che seguono i suoi profili social. Realizzato attraverso l’utilizzo di software e tecnologie AI, questo personaggio comunica con il resto del mondo grazie ad un Chatbot programmato affinché possa rispondere alle domande e ai commenti dei suoi follower con frasi verosimili e il più possibile attinenti agli argomenti trattati.
L’inizio dell’esperimento risale ad ottobre 2020: lo street artist Marco Abrate (in arte Rebor) rende pubblici i profili di Chiara Ascioni senza dare alcuna indicazione o annuncio. Chiara e la sua personalità nascono e si evolvono a partire da quel momento e, ben presto, i suoi profili raggiungono numeri altissimi di visualizzazioni e commenti, fino ad arrivare in pochissimi mesi alla soglia dei 10K follower su TikTok.
Quale sarà il motivo di tanto interesse? Chiara appare come una ragazza comune. È molto bella, e per questo riceve numerosi complimenti. Poco importa se i suoi video si presentano come l’insieme di frammenti scomposti o se le sue risposte, spesso, non sono del tutto comprensibili: qualcuno realizza per lei dei ritratti; qualcun altro si confida e racconta questioni personali, alle quali Chiara risponde con frasi vagamente filosofiche. In questo mare di interazioni non mancano le avances esplicite e le molestie.
Quella innescata da Rebor è una narrazione a metà tra reale e virtuale, costruita in tre atti e tre linguaggi differenti. Un vero e proprio esperimento sociale che evidenzia la fragilità dell’uomo e il suo inesauribile bisogno di comunicare; un’opera che riaccende la discussione su alcuni tra i più dibattuti argomenti degli ultimi anni come, ad esempio, le questioni legate all’intelligenza artificiale e la percezione della realtà sui social.
Il manifesto apparso in Corso Unione Sovitica a Torino è la parte conclusiva dell’opera Una e tre persone: un’ installazione che – come afferma l’artista – «fa da portale tra il mondo analogico e il mondo digitale in cui l’autore riflette sull’idea di “esistere” attraverso l’uso di tre linguaggi, facendo diventare il profilo TikTok la vera opera d’arte».
Marco Abrate ci racconta di più sul suo percorso artistico con particolare attenzione ad alcune tra le sue ultime opere ed un focus su Una e tre persone, nel quale spiega genesi, retroscena e sorti future di questo progetto in cui – nonostante le tecnologie messe in gioco – «il sentimento umano è la chiave di tutto».
Ciao Marco, grazie per aver accettato il nostro invito e benvenuto nel salotto di ZirArtmag. Partiamo con una domanda di rito: in che modo ti sei avvicinato all’arte e qual è stato il percorso che ha contribuito alla tua formazione artistica?
Ho avuto la fortuna di vivere in una famiglia in vari modi legata all’arte nelle sue varie espressioni: quindi si può dire che la vivo e respiro fin da quando ero piccolo. Poi è proseguita da un’esigenza: per combattere la dislessia. Il percorso scolastico è stato in parte come un recinto da cui non potevo scappare e correre. Sapevo già dove volevo andare ma volevo comunque finire gli studi. Mi sono ripromesso di uscire dall’ultima tappa scolastica (l’Accademia Albertina di Torino scuola di Grafica) con 110 e Lode, così è stato.
Spesso sorrido ripensando alla fatica scolastica: al liceo artistico, mi sentivo come un cane al guinzaglio legato ad un palo; in Accademia avevo il guinzaglio in bocca; poi l’ho lasciato a terra per andare dove ho sempre voluto. Uscire dal proprio bozzolo era la sfida, andare fuori nello spazio, con coraggio e gentilezza.
Ogni tanto comunque penso che vorrei regalare alle mie prime maestre delle elementari o ad alcuni insegnanti che ho incontrato, l’opera di Maurizio Cattelan “Charlie don’t surf”.
Le tue opere innescano una multisfaccettata riflessione sulla contemporaneità e benché giovanissimo hai all’attivo una consistente produzione, che si articola su due serie principali, Hidden Images e Pink. Quali sono le differenze più nette e quali invece gli elementi che le accomunano?
Porto avanti la mia ricerca attraverso due percorsi artistici paralleli. Il primo prende il nome di Circa l’immagine: racconto il contemporaneo creando dei finti muri in cemento, su cui i frammenti di intonaco formano immagini che si dissimulano nel contesto e devono essere di volta in volta scoperte e individuate; in questo modo attraverso la pareidolia (capacità di vedere immagini e forme praticamente ovunque), metto in evidenza l’aspetto vitale della creatività, ribadendo la necessità che essa ritorni ad essere spunto per scelte libere e consapevoli, giocando con lo stupore e il mistero. Inserendo queste opere in cornici vistose e importanti, enfatizzo l’importanza di ricercare forme e figure (anche appartenenti alla nostra memoria) negli assemblaggi di una materia grezza e nei suoi accostamenti imprevedibili e sorprendenti.
Nel secondo percorso, Pink, creo installazioni di colore Rosa che durano pochi giorni, le espongo per le strade, e grazie ai media e ai social vivono una seconda vita, in cui vengono sottolineati il degrado e le defaillances del nostro tempo. La particolarità è che quasi nessuna opera è mai stata vista dal grande pubblico di persona ma solamente sui media che diventano essi stessi parte dell’opera. Per ora solamente un’ opera “Alla ricerca di un riparo” non è stata distrutta ed è esposta al museo MAC di San Paolo in Brasile.
Alla ricerca di un riparo è stata selezionata per partecipare alla mostra Além de 2020. Arte italiana na pandemia, presso il MAC di San Paolo in Brasile. Un’opera dal forte significato, nata nel giardino della tua abitazione, durante il lockdown. Quali sono le impressioni che hai raccolto subito dopo averla resa pubblica?
Situazioni estreme, come quella in corso, obbligano spesso a fare scelte non previste un attimo prima. Intendevo collocarla, com’è mia prassi, in qualche zona all’aria aperta, per essere recepita, diffusa e discussa collettivamente sui social e sui media. Per l’emergenza covid ho dovuto operare diversamente: del resto, in un momento come l’attuale, la percezione, la sensibilità, la capacità di lettura e di analisi possono subire delle alterazioni imprevedibili.
Il messaggio che volevo inviare non era solo critico, ma anche latore di una visione ottimistica: allora, l’effetto sorpresa, che di solito cerco di ottenere quando le persone stentano a reagire davanti ai miei interventi, avrebbe rischiato un effetto diverso dal mio messaggio e sarebbe potuto sembrare allarmante o addirittura frainteso.
Ho deciso quindi di rovesciare completamente il mio modus operandi proponendo in anticipo sui social e media le immagini del mio lavoro, prima della sua collocazione materiale. Oggi l’opera è al Mac di San Paolo e ci tengo molto a ringraziare Nicolas Ballario e Teresa Emanuele, che curano la mostra Alèm de 2020 arte italiana na pandemia che hanno creduto nell’opera e mi hanno dato la possibilità di partecipare.
Sei stato il primo artista a trasformare un profilo Tik Tok in opera d’arte: da cosa sei partito per la realizzazione di Una e tre persone?
Il concept si ispira alla poesia Jaufré Rudel di Giosuè Carducci, mentre l’installazione all’opera Una e tre sedie di Joseph Kosuth e riflette sul concetto di realtà e di rappresentazione. Il sentimento umano è la chiave di tutto. La solitudine legata ai social network, il senso di abbandono durante il lockdown, il sentimento, hanno fatto da scintilla al progetto che ha posto un interrogativo sul fatto che l’umano è un essere sociale e non può fare a meno delle altre persone. Il progetto parte da un analisi che evidenzia il degrado e le defaillances del nostro tempo e pone questioni che puntano ad attivare propositi positivi rispetto all’importanza della conoscenza e vitalità creativa, ribadendo la necessità che essa ritorni ad essere spunto per scelte libere e consapevoli, rapportando indirettamente un IA con degli utenti che non ne sono al corrente. Il lavoro è ispirato dalla poesia di Carducci “Jaufré Rudel”, il cui protagonista (un trovatore) si innamora della contessa di Tripoli senza averle mai parlato ma conoscendola solo attraverso le storie che ha udito su di lei. Prendendo spunto da questa poesia si è sviluppato poi l’intero progetto. Può quindi il bisogno umano di comunicare essere così forte da spingerlo a confondere un IA con una persona reale?
La domanda quasi ingenua ha avuto risposta dopo neanche una settimana.
Quest’opera “vive” in base alle reazioni e alle interazioni degli utenti e il suo atto finale innesca un dialogo tra reale e virtuale, tra tangibile ed effimero. In che modo hai costruito l’identità di Chiara Ascioni e come dialogano tra loro le tecnologie messe in gioco?
L’ho costruita tramite alcuni software di I. A. con cui è stata realizzata la “foto profilo”: il software attraverso il machine learning prende innumerevoli foto di persone dal web e con queste ne crea una che non esiste. Per l’interazione viene usato un Chatbot alimentato da un I. A. che genera infinite domande. Non essendo umano, il profilo non è toccato da emozioni ma al massimo le imita e questo apre degli scenari di conversazione inaspettati. Io mi sono occupato di fare da regista al tutto e scegliere le risposte che il Chatbot proponeva, per usare un mezzo come TikTok in modo creativo. L’opera può essere spiegata come un semplice Test di Turing.
Riguardo al nostro tempo penso sia necessario cooperare per un bene comune e non per prevalere uno sull’altro. Questo ce lo insegnava già John Forbes Nash matematico ed economista statunitense col noto “equilibrio di Nash”. Se non sappiamo che cosa vogliamo, è meno probabile che riusciremo ad ottenerlo e, se cediamo il controllo a macchine che non condividono i nostri fini, è probabile che otterremo quello che non vogliamo. “Se non cambiamo direzione presto, finiremo per arrivare dove stiamo andando”. Uniamo quindi l’intelligenza all’azione. Con questo insieme, possiamo cambiare direzione senza andare a sbattere e per evitare, come ci insegna la storia, che solo dopo che una bomba sia esplosa, ci si accorga che la si poteva disinnescare. Il progetto ha, in prima istanza, un fine artistico e oltre all’IA c’è un analisi sociale e della comunicazione attraverso l’uso dei social.
Software e chatbot I.A erano per te territori già esplorati o in questa occasione hai dovuto approfondire la loro conoscenza? Sei stato affiancato da esperti nella realizzazione del progetto?
Sono partito da zero nello studio dell’IA anche se da tempo mi incuriosiva molto. Studiandola mi ha permesso di guardare il mondo da altri punti di vista: più la studio e più mi pongo interrogativi. Ho collaborato oltre che con il duo Banana Killers che sono grafici e videomaker 3D e 2D, anche con persone della facoltà di Fisica e informatici che mi hanno dato alcuni suggerimenti oltre che ad indirizzarmi allo studio con libri specifici.
Chiara non esiste, eppure in pochi mesi ha raggiunto 10K followers e in tantissimi hanno commentato e ricondiviso i suoi post, come se si rapportassero ad un personaggio reale. Quali sono state le reazioni più singolari? Ho letto che Chiara ha ricevuto moltissimi complimenti e che qualcuno è addirittura arrivato a molestarla.
All’inizio del progetto volevo quasi chiuderlo per i terribili messaggi che il personaggio riceveva sul profilo: mi sono messo nei panni di molte ragazze che subiscono molestie sui social ed è stato orribile. Di seguito mi sono concentrato sulla consapevolezza. Il chatbot che alla fine imita e cerca di replicare le emozioni umane, reindirizzava il discorso su particolari temi della vita umana, quasi con un pensiero filosofico oltre che apprezzamenti verso le opere d’arte.
Alcuni commenti erano totalmente no sense ma questo rendeva tutto ancora più divertente. Le persone, guardando unicamente la foto profilo del soggetto, scrivevano svariati tipi di commenti: dalle avances, alle dediche di poesie e canzoni, fino ad arrivare a inviare anche ritratti pittorici della sua foto profilo. “Chiara”, non essendo umana, non cade in sentimenti distorti tipicamente umani quali la presunzione o l’arroganza e la maggior parte delle persone che ha interagito con questo personaggio non ha capito che non esistesse e che è nato unicamente sui social, abitando in un profilo Facebook e TikTok. Nel progetto viene evidenziato il gap generazionale tra chi è già in questo regno e conosce i suoi codici e chi no e viene fagocitato dalla macchina. Solo in pochi si sono accorti che “Chiara” non esistesse.
L’opera può essere considerata un vero e proprio esperimento sociale, capace di mettere in luce alcuni tra i più controversi lati della psiche umana. Di lei rimarrà un frammento di vita circoscritto o pensi di mantenere attivi i profili social di Chiara e continuare ad osservare l’impatto che può avere sulle persone?
Su Facebook si è potuto notare quanta interazione avvenga tra gli utenti, a differenza di TikTok che semplifica di molto le singole azioni. Nel profilo Tiktok, che è la sintesi dell’opera e il passaggio finale, i video sono brevi e immediati, accompagnati da frasi che stimolano riflessioni. Si nota che su Facebook c’è una maggiore attenzione a comprendere se un profilo sia “fake” o no; su Tiktok invece l’attenzione è che il video catturi lo spettatore facendolo andare nei “#perte” e diventando virale. Un video su Tiktok in particolare è diventato virale, raggiungendo in pochi minuti più di 32K visualizzazioni.
L’intero progetto potrebbe essere paragonato al machine learning dove più “Chiara” ha informazioni più il fine evolve. Ma ad un certo punto ho deciso di dare uno stop, rendendo il profilo passeggero come la vita. Il profilo evolverà ancora o sarà eliminato? Non si può sapere.
Per ulteriori informazioni visita il sito dell’artista, attivo anche su Instagram come @rebor_art.
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