Tutti noi conosciamo Marina Abramovic, celebre artista serba naturalizzata americana, come la più grande artista legata al mondo della Body Art, tanto che lei stessa ama definirsi la “nonna” del movimento. Di lei conosciamo tutte le performance più famose e quelle al fianco di Ulay, il compagno di una vita. Ma chi era Marina Abramovic prima di conoscere il suo partner?
L’infanzia di Marina non è stata semplice: i due genitori erano attivisti politici molto conosciuti nel loro Paese e molto impegnati, tanto da lasciare la gestione della bimba alla nonna Milica. Questa assenza ha creato un bisogno estremo di attenzioni e amore che si sono acuite con l’arrivo del fratello Velimir, portando Marina a soffrire di continui e incessanti sanguinamenti che neanche i medici sapevano spiegarsi. Allo stesso tempo stava iniziando a coltivare un senso di ostinazione uguale a quello della madre, dalla quale cercava comunque di prendere le distanze.
Un episodio legato alla sua vita passata esprime al meglio la nuova forza di volontà che Marina stava iniziando a sperimentare. Una mattina la nonna Milica doveva fare un tragitto più lungo del solito per andare al mercato e decise di lasciare Marina a casa dicendole di non muoversi. La Abramovic prese così alla lettera il comando che non solo rimase nella stessa posizione per le due ore successive, ma non toccò neanche il bicchiere d’acqua che la nonna le aveva lasciato sul tavolo. Questa presa di posizione sarà ripresa anche nelle sue future performance, in cui il fatto di perdere il controllo di quello che stava succedendo non era contemplato.
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Nonostante la famiglia avesse molti difetti e mancanze, la madre la portava spesso in giro per gli atelier degli artisti di Belgrado e molte volte la bimba rimaneva ore a giocare in mezzo ai detriti e a collezioni di oggetti bizzarri. Danica ha sempre dimostrato un interesse per la formazione artistica della figlia tanto che, quando Marina cominciò a mostrare interesse per la pittura, le concesse di usare una stanza dell’appartamento come studio.
La giovane Abramovic soffriva spesso di forti emicranie che la obbligavano a stare ferma. Questa condizione diventò un modo per conoscere il suo corpo come veicolo di sofferenze: quando realizzava questo concetto riusciva a dormire, svegliandosi poi in piena estasi. Iniziò quindi una sorta di sperimentazione su come convivere con questo dolore, allenandosi a stare perfettamente immobile in posizioni particolari, dimostrando ancora una volta la sua proverbiale volontà ferrea.
La pittura era diventata un’ossessione per Marina tanto da andare a rubare i fondali nel retro palco del Teatro Nazionale di Belgrado e chiedere per i suoi 14 anni una scatola di colori ad olio. Il padre le regalò anche una lezione di pittura con l’artista informale Filo Filipović, che insieme a Marina dipinse un tramonto. Filipović prese una tela, la tagliò con una forma grossolana e irregolare e la imbrattò di colla e bitume; gettò poi dei sassolini nel composto e aggiunse giallo, rosso e bianco. Alla fine versò un intruglio di trementina e benzina e diede fuoco a tutto. Marina prese quello che restava dell’opera e la appese sulla parete della sua camera; quando tornò dalle vacanze la tela si era sbriciolata sul pavimento: lei restò estremamente affascinata dalla transitorietà dell’opera, sviluppando una passione per le azioni dimostrative e pericolose (neanche a farlo apposta suo padre Vojo le regalò anche una pistola).
Verso la fine degli anni ’70 Marina Abramovic presentò le prime performance che prevedevano anche il coinvolgimento del pubblico. Come wash with me consisteva nel trasformare la stanza in una lavanderia con dei lavelli installati ad hoc in cui il pubblico entrava e lasciava i suoi vestiti all’artista che li lavava e li stirava per poi restituirli ai proprietari.
La seconda performance prevedeva una trasformazione radicale da lei alla madre, sostituendo completamente i suoi vestiti con quelli demodè della madre (una gonna lunga fino al polpaccio, pesanti calze sintetiche, scarpe ortopediche e camicia di cotone bianca a pois). Poi avrebbe puntato la pistola alla testa iniziando una roulette russa. Inutile dire che entrambe le proposte vennero rifiutate.
In quegli anni frequentò anche lo Studentski Kulturni Centar (SKC) insieme ad altri artisti suoi amici; qui tutti presentavano opere che volevano superare la dicotomia tra un’arte esteticamente piacevole e quella politicamente impegnata. Marina presentò alcune opere di videoarte dove il suono era il protagonista assoluto.
Dicembre 1972 diventa un anno fondamentale per la Abramovic: il curatore e gallerista Richard Demarco era in visita a Belgrado alla ricerca di giovani artisti jugoslavi da portare a Edimburgo. Qui conobbe Marina Abramovic, e con lui la conobbe anche tutto il resto del mondo.
Da quel momento l’artista inizierà a presentare una serie di performance in cui scaverà negli angoli più bui della mente umana giocando sui limiti estremi come dolore ed estasi, vita e morte.
RHYTHM 10 (1973)
Questa è stata la prima performance presentata a Berlino, dal carattere cruento e disorientante. Marina srotolò un grande foglio di carta bianca spessa e vi sistemò sopra due registratori e 10 coltelli di varie misure; si inginocchiò, accese uno dei registratori e allargò la mano sinistra sulla carta. Prese il primo coltello e cominciò a conficcarlo ripetutamente negli spazi tra le dita e man mano che si feriva cambiava coltello; arrivata a 10 tagli, bloccò la registrazione e ripetè l’azione con una seconda registrazione. Infine riavvolse i due nastri. Li fece ripartire in simultanea e se ne andò, lasciando il pubblico a ragionare su quanto era appena successo.
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RHYTHM 5 (1974)
L’anno successivo propose questa installazione composta da una grande stella a cinque punte in legno e al centro uno spazio vuoto in cui potersi sdraiare, riempita di trucioli e cosparsa di benzina per poi darle fuoco. Inizialmente accese il fuoco e cominciò a girare attorno alla stella, gettando poi al suo interno i capelli e le unghie appena tagliati; solo in un secondo momento entrò e si distese, perfettamente immobile. Perse conoscenza per la mancanza di ossigeno e venne portata fuori da alcuni spettatori. Un rito di passaggio e una prova di coraggio autoimposta che l’ha portata a spingersi oltre, purificandosi anche dal peso dei genitori e delle tradizioni jugoslave.
In un secondo momento Marina si arrabbiò perché era svenuta e decise che la possibilità di perdere il controllo doveva essere codificata come parte della performance e non decretarne la fine anticipata.
È quello che fece in seguito con Rhythm 2. Si procurò due pillole dall’ospedale: una stimolava il movimento nei pazienti catatonici e l’altra veniva usata per sedare gli schizofrenici. Seduta davanti a un tavolo, prese la prima compressa e iniziò a perdere il controllo dei muscoli, creando delle smorfie involontarie. Dopo un’ora l’effetto era finito e prese la seconda pillola che la fece andare in un senso di torpore che la accompagnò per le cinque ore successive.
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RHYTHM 4 (1974)
Marina si presentò nuda in una stanza davanti a un ventilatore industriale, accostandolo al viso nel tentativo di riempirsi d’aria i polmoni fino a scoppiare. L’idea era di essere ripresa attraverso un primo piano in modo che il pubblico, situato in un’altra stanza, non si sarebbe accorto di una possibile perdita di coscienza da parte dell’artista. Marina voleva provocare lo spettatore per vedere fin dove si sarebbe spinto per darle l’attenzione di cui aveva bisogno.
RHYTHM 0 (1974)
Con questa performance la Abramovic lasciò campo libero al pubblico: era lui l’artista, colui che deteneva il pieno controllo di tutto quello che poteva accadere e che poteva usare Marina a proprio piacimento. Lei era solo una bambola dagli occhi vitrei. Davanti all’artista si trovavano 72 oggetti tra i più disparati, messi a disposizione di chiunque avesse il desiderio di “giocare” con lei. La sistemarono in pose diverse, la accarezzarono, la spogliarono, la baciarono e le puntarono la pistola sul collo: tutte azioni che a lungo andare dimostrarono il peggio degli esseri mani, ma con una flebile speranza perché, dopo tutto, qualcuno si oppose a quelle violenze senza senso.
LIPS OF THOMAS (1975)
Questa fu la performance più violenta e barocca realizzata finora, dedicata a un uomo conosciuto durante il suo tour in Europa, dove stava presentando la serie Rhythm. Marina Abramovic nuda sedeva davanti a un tavolo per mangiare un barattolo di miele e bere una bottiglia di vino, rompendo poi il bicchiere su cui aveva appena bevuto. Poi si alzò, disegnò un pentacolo intorno alla fotografia di Lips e sul suo ventre, flagellandosi e prostrandosi davanti alla fotografia. Alla fine si distese su una serie di blocchi di ghiaccio a forma di croce mentre sopra di lei c’era una stufa che facilitava lo scorre del sangue. Sul finire, la performance venne bloccata: il pubblico aveva deciso di ricambiare l’amore che la Abramovic nutriva per lui.
Ancora una volta la performance nasconde una serie di simboli che esercitano un potere primordiale, legato alla sua vita privata: da un lato il ricordo della stella del comunismo per cui si battevano i genitori e, dall’altro, la continua richiesta di attenzione che Marina chiedeva sin da piccola.
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