Per il ciclo di mostre Courtesy Emilia-Romagna, progetto realizzato nell’ambito di Arte Fiera in collaborazione con le collezioni pubbliche e private disseminate sul territorio emiliano – romagnolo, quest’anno Eva Brioschi ha presentato la mostra intitolata L’opera aperta. Giunto alla sua seconda edizione (la prima, nel 2019, era stata curata da Davide Ferri e si intitolava Solo Figura e Sfondo) il ciclo fa parte di un progetto ideato al fine di rendere note al grande pubblico le opere d’arte celate nelle piccole collezioni istituzionali e per consacrare quelle appartenenti alle grandi raccolte di arte moderna e contemporanea.
Il titolo della mostra è un chiaro omaggio al grande Umberto Eco, scomparso nel 2016, e alla sua raccolta di saggi pubblicata nel 1962 dal titolo Opera Aperta. Opera aperta proprio perché, seguendo la linea di pensiero di Eco, l’arte non dovrebbe essere recepita con restrizioni mentali di alcun tipo: il fruitore dovrebbe essere in grado di osservare un’opera con uno sguardo libero da pregiudizi e con la mente sgombra. Inoltre, l’opera è aperta perché, per esistere, necessita della partecipazione dello spettatore che, con il suo sguardo, le dona nuovi valori. L’opera contemporanea è, per antonomasia, quella più bisognosa della partecipazione attiva del fruitore per potersi “completare”, per acquisire un senso.
La mostra invita lo spettatore a compiere questo viaggio con la mente libera da preconcetti, pronta a recepire inediti e mai uguali accostamenti di senso. Le opere selezionate dalla curatrice pongono infinite domande che non necessariamente prevedono risposte; perché l’arte, specialmente quella contemporanea, spesso non fornisce risposte né spiegazioni, ma stimola sempre il nostro occhio a trovare nuove interpretazioni e diversi punti di vista. L’incipit di questo cammino è l’installazione realizzata negli anni Ottanta da Gianni Colombo (uno dei prestiti del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna) definita dall’artista stesso Architettura cagoniometrica, che invita lo spettatore a una fruizione attiva dell’opera, abbandonando la passività percettiva che spesso ci accompagna quando visitiamo le esposizioni d’arte, dandoci la possibilità di interagire con la struttura attraversandola.
Questo passaggio ci porta in un universo dove non sono presenti dei dati accostamenti di senso: siamo noi che, con la nostra sensibilità, dobbiamo sforzarci di trovare la rappresentazione che più ci è familiare. La mostra prevede un percorso di visita abbastanza flessibile, organizzato in senso orario, e tutto gira intorno alla mastodontica Venusia, opera posta al centro della sala. Unico prestito dell’istituzione new entry dell’edizione di quest’anno, la Fondazione Cineteca di Bologna, l’imponente testa emerge dal centro dello spazio e ci accompagna durante il cammino. Si tratta di una copia della grande testa in vetro-resina presente nel film Casanova di Federico Fellini, realizzata in polistirene espanso da Dino Candelo e da Mekane (su ideazione e indicazioni di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo) inserita all’interno della mostra come omaggio al grande regista, in occasione del centenario della sua nascita.
Vegliati dalla testa di Venusia, vediamo opere che, a prima vista, non sembrano possedere un collegamento logico: tutti i vari medium sono presenti, dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al video, dalla ceramica al mosaico fino ai buchi di Lucio Fontana, che rispecchiano il più estremo tentativo di rappresentazione. Il nostro occhio e la nostra percezione sono costantemente stimolati in questo viaggio, ed ognuno di noi interpreta ciò che vede in modo diverso e personale. Ed è proprio questa variabilità di percezione ciò che accomuna le opere in mostra: come sosteneva Umberto Eco, ogni opera è aperta, è dotata di più significati, è aperta al dialogo e ha bisogno dello sguardo attivo e critico dello spettatore per dotarsi di un senso che non è mai uguale, proprio perché non è uguale la sensibilità di ogni persona.
E con la mente aperta e libera da pregiudizi, dobbiamo proseguire questo viaggio attraverso mondi che ci sono sconosciuti e quasi ci inquietano. La nostra percezione è stimolata costantemente nel tentativo di trovare un significato alle opere, come nel Dado esploso di Carlo Zauli (proveniente dal Museo Carlo Zauli di Faenza) e nell’incisione di Vincenzo Agnetti, Photo-Graffia della Fondazione Modena Arti Visive. Percorrendo la mostra, la piccola sezione che ospita gli acquerelli di Giorgio Morandi (provenienti dal Museo Morandi) ci dona un po’ di sollievo e riposo per l’occhio e per la mente, come se fossimo dei viandanti stanchi e assetati che trovano un’oasi pacifica nel deserto. Proseguendo, esploriamo il corpo umano nella fotografia di Dino Pedriali che, nel suo Yoshihiro (proveniente dal MAR – Museo d’Arte della Città di Ravenna) ci dona una visione inedita e molto caravaggesca del corpo di un senza tetto. Veniamo contemporaneamente attratti e repulsi dai suoni e dalle sequenze del video di Yuri Ancarani, Da Vinci (prestito della Fondazione MAST di Bologna) che ci mostra il progredire della scienza e della ricerca medica nell’attività di un braccio meccanico utilizzato per operazioni chirurgiche molto rischiose.
Il nostro viaggio termina con un neon di Maurizio Nannucci, che ci suggerisce un atto finale da compiere: think. Questo è il lascito della mostra: stimolare la nostra mente e la nostra percezione e finalmente tranquillizzarci. Perché l’arte contemporanea, molte volte, è affascinante proprio perché non riusciamo a coglierne il senso.
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